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22 settembre 2009 2 22 /09 /settembre /2009 15:06

Kate Fitzgerald è un'adolescente innamorata della vita e colpita a pochi anni da una forma aggressiva di leucemia. La sua famiglia, partecipe e protettiva, combatte da sempre la sua battaglia. Sara, la madre, ha abbandonato lavoro e carriera per garantirle cure e sostegno, Brian, il padre, veglia sulla famiglia e cerca come può di contenere il dolore della figlia e l'ostinata determinazione della moglie davanti alla malattia, Jesse, figlio maggiore, è un ragazzo introverso e suo malgrado defilato, Anna, figlia minore, ha undici anni ed è stata concepita in provetta per "riparare" la patologia progressiva della sorella maggiore. Provata emotivamente e sfinita dal disinteresse della madre, sempre troppo concentrata su Kate, Anna denuncia i genitori e chiede l'emancipazione medica e i diritti sul proprio corpo. Il processo li dividerà fino a riunirli.
Non è nuovo Nick Cassavetes alle storie lacrimevoli. Se Le pagine della nostra vita era un melodramma rosa e "Sparks" sul tema eterno dell'amore ostacolato, in La custode di mia sorella la macchina da presa "indugia" e "scava" nella malattia oncologica e nel focolare domestico di una famiglia americana. Meglio allora togliersi il pensiero e gettare le carte: La custode di mia sorella è una macchina per far piangere e il film non lesina lacrime e afflizione, producendo un inventario di luoghi comuni sulla malattia. Così il regista filma gli ultimi giorni della vita del suo personaggio, limitandosi a filtrare e accompagnare, con l'ausilio di una voce "a più voci" fuori campo, l'avvenuta dipartita del paziente. Senza pietà spoglia le carni e gli sguardi di Kate, fino a mostrarne la dissoluzione e l'inesorabile trasformazione del suo corpo, effetto "mostruoso" e collaterale dei farmaci chemioterapici. Vomito, sangue, sudore, lacrime servono ad amplificare la tensione drammatica e la partecipazione partecipe dello spettatore. Le cifre stilistiche care al genere "strappalacrime" e di maniera (l'uso irriducibile del primo piano, il rallenty e i flashback quasi sempre gioiosi che rimandano a un tempo felice e "in buona salute") si accompagnano a una colonna sonora compiaciuta che amplifica i momenti più drammatici della vicenda.
L'ambientazione, tipicamente borghese e raccolta in ambienti luminosi e ben arredati, completa e inquadra quadro e clichè.
Figlio d'arte del più indomito e ostinato dei registi indipendenti americani, John Cassavetes, Nick conferma una volta di troppo di mancare dell'immaginazione e della trasversalità del padre, di quella malinconia arrabbiata con cui era solito guardarsi intorno. La custode di mia sorella non si discosta allora dalla rappresentazione melodrammatica della malattia neoplastica, sprecando la lezione wendersiana dell'Amico americano, che offriva alla macchina da presa e allo spettatore gli ultimi giorni di vita di un corniciaio affetto da leucemia, scatenando singolari forze emotive nel cinema americano e fornendo un "occhio" inconsueto con cui guardare la malattia e la morte.
Il modello di indipendenza e di insofferenza del cinema di John Cassavetes viene rinnegato da un film artificioso e di sicuro effetto, che si contorce appagato dal dolore e nel dolore. Senza deflagrazione, senza messa in crisi, senza cortocircuiti. Senza disciplina. Senza scrupoli.




   

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