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9 settembre 2009 3 09 /09 /settembre /2009 07:23

 

 

« Ne nous abandonnez pas ! » Il s’est mis à genoux pour supplier l’officier italien du « Bovienzo », la vedette de la Guardia di Finanza, et ajoute : « Ils vont encore nous frapper, je ne veux pas retourner en Libye. » | Photo Enrico Dagnino

 

 

 

La scaletta! per lasciare il gommone in panne bisogna afferrare questo pezzo di

ferraglia attaccato alla fiancata della nave. Intanto il gommone continua a

sgonfiarsi e a ondeggiare, sbattendo contro l’imbarcazione della guardia di

finanza. Questa scaletta è la strada più breve tra l’Africa e l’Europa, tra la miseria

e la speranza. In fondo al gommone alla deriva c’è una ragazza stremata e

immobile, di cui si vedono solo gli occhi spalancati per il terrore. Gli spintoni per

salire sulla scala, la lotta per uscire dal relitto: quest’abbordaggio della

disperazione ha qualcosa di dantesco. È terribile anche per i marinai del Bovienzo,

che non sono certo al primo salvataggio in mare. “Aspettate, uno alla volta!”, grida

uno di loro. Gli ordini del comandante Christian Acero non ottengono nulla di più.

Ma che disciplina ci si può aspettare dai sopravvissuti? La sua voce roca è coperta

dal rumore di un elicottero che sorvola la zona. Acero è esasperato: “Ma quando

se ne va?”. Un membro dell’equipaggio picchia con il manganello sulle sbarre della

scaletta per far capire ai naufraghi che non devono attaccarsi tutti insieme. Ma

loro se ne fregano: è il mare che fa paura, non gli uomini e i manganelli. Cercano

di salire come meglio possono, gli uni sugli altri, rischiando di cadere in mare e

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affogare. L’angoscia s’impadronisce dell’equipaggio del Bovienzo. I primi

naufraghi che arrivano a bordo si mettono a sedere contro il telo del pozzetto

cercando di stendere le gambe. Hanno il iato corto e le braccia che tremano. Saud

Adill rimane un momento immobile, poi crolla. Si avvicina piangendo ad Amal, un

suo amico, anche lui scampato al naufragio. Amal lo abbraccia e lo stringe a sé.

Adill ci guarda, le sue labbra tremano. “Acqua”, chiede Amal. Gli diamo una

bottiglia. Con delicatezza bagna Adill, poi la bottiglia passa di mano in mano. In

pochi secondi è vuota. Intanto i naufraghi continuano a invadere il ponte. Quanti

sono? Dieci, venti, trenta. E continuano a salire. I marinai ordinano agli altri di

stringersi per fare posto. Alla fine sono 68. A poppa ci sono altre dodici

donne. Solo stracci senza valore Per giorni queste ottanta persone sono andate

alla deriva su un gommone che i marinai del Bovienzo lasciano affondare senza

cercare di recuperare gli oggetti che sono a bordo. Del resto, non c’è niente di

valore: qualche straccio, delle magliette sporche, una bottiglia vuota. Non è

rimasto nulla: né acqua né cibo né benzina. Per arrivare in Sicilia mancano più di

cento miglia marine: non ce l’avrebbero mai fatta. “Gli abbiamo salvato la

vita”, mormora un membro dell’equipaggio. Il comandante rimane in silenzio, si

accende una sigaretta e torna al timone. Sul ponte, Amal aiuta Adill a

riprendersi. Adill è nato nel 1983. “Il 1 aprile”, racconta. “So disegnare. Voglio

lavorare, andare a scuola in un paese europeo. Farò tutto quello che volete”.

Gesticola, Amal lo calma. Amal è ghanese e ha 26 anni. Ha vissuto e lavorato in

Libia per quattro anni, cercando di guadagnare i 1.500 dollari necessari per la

traversata. Vuole raggiungere il fratello in Spagna. Non gli va di parlare del

viaggio e bisogna strappargli le parole di bocca. È stato uno sconosciuto

incontrato al mercato di Tripoli a offrirgli la possibilità di imbarcarsi. Così, una

notte è salito su un pickup con altri africani. Lo hanno bendato, portato in una

casa e gli hanno preso i soldi. Poi la spiaggia, la partenza e il gommone. Quanto

tempo avete passato in mare? Amal non lo sa. “Tre notti, poi la benzina è finita”,

dice uno dei suoi compagni. Si chiama Franck, ha gli occhi arrossati, le labbra

gonfie e screpolate. Come gli altri, è confuso. Qualcuno afferma che il viaggio è

durato cinque giorni. Impossibile, risponde un marinaio: “Dopo cinque giorni in

queste condizioni non avrebbero la forza di parlare”. Nessuno sembra in grado di

stabilire con esattezza il tempo passato in mare. Hanno tutti una storia già pronta

– imparata per bene durante la traversata – da raccontare alla polizia e ai giudici: è

la storia incredibile di un lungo viaggio e della loro guida che è caduta in mare.

Me la racconta Gift, una giovane nigeriana che indossa un paio di jeans scoloriti e

ha i capelli arruffati. Mi chiede cosa le succederà. Le racconto quello che ho già

visto in passato, quello che sono convinto le succederà. Stiamo navigando verso

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il molo di Porto Nuovo, a Lampedusa, dove la Croce rossa, la Caritas e l’Acnur

si occuperanno di loro: gli daranno tè e biscotti, coperte e vestiti. Al porto di

Tripoli gli immigrati vengono fatti scendere con la forza dal guardacoste

Bovienzo legale, cure e anche una carta telefonica. Gli africani sanno che chi arriva

a Lampedusa è trattato come un naufrago, non come un clandestino. Anche se

sull’isola non tutti sono d’accordo: gli abitanti non amano vedersi sfilare davanti

la miseria del mondo e non vogliono che le loro coste si trasformino in un

cimitero a cielo aperto. Nessuno, però, rifiuta un minimo di umanità, di

solidarietà, di carità. Così dico ai naufraghi: “Non vi preoccupate”. Poi, però,

comincio io a preoccuparmi: quando torno in cabina, scopro che la destinazione è

cambiata. Lampedusa è a un’ora di navigazione in direzione ovest. Il guardacoste

della guardia di finanza invece sta andando a sud. Cala la notte. I profughi

stremati hanno freddo, fame e sonno. “Ieri ha piovuto”, racconta Amal, “siamo

ancora tutti bagnati”. Aspira il fumo dalla sigaretta che qualcuno gli ha dato e la

passa ai compagni. Un uomo esile chiede da mangiare, ma non avrà nulla. Un

altro, che indossa la maglia di Francesco Totti della Roma, chiede dei vestiti

asciutti, ma non ce ne sono. Non ci sono neanche le coperte. Sul ponte si

vedono le sagome di uomini e donne seduti o sdraiati, avvolti in lembi di stoffa

sporca. S’intravedono dei piedi. L’odore è forte, nauseante. Meglio non pensare

alle condizioni igieniche in cui queste persone hanno trascorso gli ultimi

giorni. Qualcuno si alza per andare a vomitare, accompagnato da un membro

dell’equipaggio. Intanto un marinaio napoletano distribuisce alle donne bottiglie

d’acqua, biscotti al cioccolato e ovatta per le orecchie. Il gruppo delle donne è

seduto sopra i motori: fa meno freddo che a prua ma c’è un rumore

insopportabile. Gift è accucciata, ha lo sguardo perso nel vuoto. Sulla testa porta

uno scialle e tiene le mani nelle tasche della giacca. Ha mal di denti e non riesce a

mangiare. Per un momento si rianima, guarda il cielo, la luna a babordo e la stella

polare che brilla a prua. “Where are we going?”, chiede. Nessuno le risponde. È

mezzanotte. Incrociamo due barche della guardia costiera. Anche loro trasportano

dei clandestini. Per radio il comandante del Bovienzo chiede delle coperte

isotermiche e l’aiuto di un medico. Qualche minuto dopo un dottore sale a bordo,

senza coperte però. Basso e corrucciato, il dottor Arturo indossa l’uniforme rossa

del Corpo italiano di soccorso dell’ordine di Malta. Ha con sé una valigetta piena

di medicine e parla solo italiano. Io ed Enrico, il fotografo, facciamo da

interpreti. Due malati si sono rifugiati in un gommone di salvataggio del

Bovienzo. “Fuel burn”, dice uno di loro indicandosi i genitali. “Ho i guanti sporchi”,

risponde il medico. Mi chiede di tirare fuori dalla borsa uno spray e lo spruzza sui

genitali del paziente, che fa una smorfia prima di riabbottonarsi i jeans. Gli altri

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immigrati capiscono che il medicinale allevia il dolore. Sul fondo del gommone si

era sparsa della benzina e loro sono rimasti per ore a mollo nel carburante. Tutti

hanno delle bruciature sul sedere. Si alzano uno dopo l’altro, abbassano i

pantaloni. Quelli che ne hanno ancora la forza, ridono. Un senegalese che indossa

un giubbotto con la chiusura lampo spiega in francese che ha la nausea e vomita

in continuazione. “Vediamo dopo”, risponde il medico. Qualcuno ha mal di testa.

“Da quanto tempo?”. “Due mesi”. “Non posso farci nulla. Sono qui solo per le

urgenze”. Un altro apre un vecchio sacco di plastica e mostra due ialette vuote.

“Le mie medicine”, dice. “Sono asmatico e nel mio paese questa medicina non si

trova più. Mio padre mi ha detto di andare…”. “Di cosa soffre esattamente?”, lo

interrompe il medico prima di girarsi. “Andiamo a vedere le donne”. Una sta male:

si tocca i fianchi e il petto facendo delle smorfie. Non parla inglese e Gift non ha

più la forza per tradurre. Il dottore l’ausculta, sospira e passa alla vicina, che

abbassa i pantaloni: “Fuel burn”. Gift parla del suo mal di denti. “Vediamo dopo”,

dice il medico. Dopo cosa? Non risponde. Gift piange. Il medico finisce il suo giro:

“Non posso occuparmi di tutti!”. Si volta verso di me e aggiunge: “È sempre così, si

lamentano delle irritazioni dovute all’acqua di mare. Ma questi sembrano in

buona salute”. Gli restituisco la valigetta, piena di pasticche, siringhe e

medicinali che non sono serviti a nulla. Almeno il dottore ha portato dei sacchi

della spazzatura. I marinai li distribuiscono e gli immigrati li indossano come

giubbotti. A poppa le donne, rannicchiate le une contro le altre, li usano come

coperte. Inutili preghiere Alle sette del mattino il sole è ormai alto. La nave

continua a fare rotta verso sud. I naufraghi tremano dal freddo. Alcuni sono

immobili, rigidi come manichini. Poi un uomo si alza e grida: “Guardate che bella

giornata! Pregate il Signore, è un giorno felice, il Signore è buono”. In mano ha

una Bibbia. Tre suoi amici si mettono a cantare. Voci basse e una melodia lenta.

Un coro di schiavi. L’uomo con la Bibbia grida: “Noi amiamo Gesù e io sono un

vincente!”. Dove trovi l’energia, dopo tre giorni in mare, è un mistero. La maggior

parte dei passeggeri è cristiana e porta una croce al collo. “Pray the Lord! Alleluia!

Voglio vedere delle persone felici”, continua il prete, che ringrazia Dio per averli

salvati. I passeggeri pregano: “Gesù è mio padre e non mi abbandonerà mai!”. Ma

molti di loro cominciano ad avere dei dubbi. “Dove stiamo andando?”,

chiedono. Sono passate dodici ore dal salvataggio e la terra all’orizzonte non è

Lampedusa. Si scorgono gli edifici del lungomare di Tripoli. Non è la libertà. È la

Libia. Non è la democrazia, la carità, l’umanità. È la Libia. A bordo cala il

silenzio. La preoccupazione aumenta, ma nessuno dei clandestini riconosce

Tripoli dal mare: quando sono partiti non l’hanno vista. Anche i marinai sono

preoccupati. Come reagiranno gli immigrati quando si accorgeranno di non essere

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in Italia? All’improvviso un passeggero indica il recinto del vecchio mercato, dove

si riparano gli africani in partenza per l’Europa. Il Bovienzo entra in porto, in un

molo isolato, nascosto da alcune grandi navi mercantili. A terra c’è un funzionario

libico con i baffetti e un vestito bianco a dirigere le operazioni. Amal si gira

verso di noi: “Ma siamo a Tripoli! Perché ci trattano così?”. Qualcuno mi prende

la mano. “Mi servono dei soldi”, dice un uomo con la giacca di jeans

guardandomi negli occhi. Con pochi euro riuscirebbe a evitare la polizia libica. La

passerella è stata calata. Un camion bianco si ferma sul molo. Ha due finestrini

minuscoli con le grate e, all’interno, due panche di ferro. All’improvviso comincia

la rivolta. Durerà un’ora: un’ora di urla, di pianti e di lotte. I clandestini che

scendono a terra spontaneamente sono pochi. Bisogna andarli a prendere uno per

uno. Tirarli, spingerli, minacciarli. Ci vogliono quattro o addirittura sei persone

per sollevarli e portarli a terra. Un uomo prende una corda e mima la propria

impiccagione. Un italiano lo minaccia con il manganello. In un angolo c’è una

persona svenuta. “Portate dell’acqua!”, grida qualcuno. Il medico non ha tempo

per visitarlo. Il malato è portato sul molo. I marinai italiani non ne possono

più. Uno di loro mormora: “Non è possibile”. Ma a poco a poco la barca si svuota.

Adill e Amal se ne vanno senza protestare. Scrivono il loro nome su un foglio e

salgono sul furgone. Ci rimarranno per ore, senza bere né mangiare. A salvarli

forse è stato Dio, non certo gli europei. Alle nove e mezzo sulla barca della

guardia di finanza rimangono solo quattro persone. Gli italiani non sanno come

calmarli. L’uomo che gridava “Alleluia!” durante la messa, adesso urla di rabbia. Si

è tolto la camicia arancione, la maglia e le mutande. È nudo e mostra le ferite

che gli hanno inflitto i poliziotti libici, i suoi aguzzini. “Libya is not our country,

me go Nigeria!”, grida un altro uomo. Loro due eseguono una specie di danza

macabra sul ponte, mentre gli altri mostrano il petto ai mitra libici. “Shoot us!”,

gridano. Poi crollano e si mettono a piangere. Il funzionario libico sorride:

“Gheddafi ama gli africani”. L’uomo nudo si rende conto di aver perso. È solo e

nudo, davanti a dieci italiani che non sanno cosa fare e a una trentina di militari e

poliziotti libici impassibili. Si infila le mutande e scende dalla passerella. Anche lui

scrive il suo nome su un foglio e sale sul camion. Gli ottanta naufraghi sono

sbarcati. Sono i primi “beneficiari” della nuova politica contro l’immigrazione

illegale adottata dal governo Berlusconi in collaborazione con la Libia. Il Bovienzo

riprende il mare diretto a Lampedusa. “Brutto lavoro”, dice un membro

dell’equipaggio che era rimasto in silenzio. Sì, sono proprio costretti a fare un

brutto lavoro.

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